Suggestioni da Cascina Roccafranca Torino

Dello spazio pubblico e dello spazio comune

Francesco Indovina

 

 

 

1. La città

Non si può parlare dell’arte della costruzione dello spazio comune e delle relative politiche, senza aver prima avanzato qualche notazione circa il ruolo della città nell’organizzazione sociale e sulla sua continua trasformazione.

La città può essere osservata da molti punti di vista, di seguito se ne propongono alcuni come quelli, in un certo senso, più rilevanti in relazione al tema affrontato in queste note.

La città costituisce la “nicchia ecologica” della specie umana, quell’ambiente, cioè, dove la specie non soltanto  ha potuto sopravvivere ma anche si è evoluta, ha costruito si suoi strumenti e ha elaborato il suo pensiero.  È in tale ambiente che la specie umana ha prodotto il meglio (è anche il peggio). Ma contrariamente a tutte le altre specie quella umana non ha trovato la sua nicchia ecologica già bella e pronta da utilizzare (come per esempio il bruco con il cavolo), essa ha dovuto costruirsi, si potrebbe dire artificialmente, l’ambiente adatto alla sua evoluzione: appunto la città. Perché la città si potesse affermare, sono stati necessari diversi secoli, l’evidenza della sua importanza non è stata immediata, essa metteva in campo delle costrizioni, organizzative e sociali, che non risultavano immediatamente apprezzate, essa costituiva il meccanismo di costruzione della società che supera e lacera la tribù, la comunità proiettando l’individuo nell’agone sociale molto meno “accogliente” di quello familiare.

Per fortuna della specie umana essa si afferma, si finisce per apprezzarne le valenze positive, se ne riconosce il dinamismo e la creatività che in essa si sviluppano. Ed è dentro questa nicchia (artificiale) che la specie evolve, cresce in sapere, in sofisticazione, afferma la sua egemonia sulla natura.

Questo tratto fondativo della città ci spiega anche perché la città, complessivamente intesa, non è statica ma costituisce una realtà in continuo movimento e mutazione: nel suo seno la specie evolve, crescono le esigenze, e a questo scopo trasforma la città, la quale a sua volta costituisce una nuova tappa dell’evoluzione in un circolo virtuoso (che a qualcuno può anche apparire mostruoso) di continue trasformazioni dalla specie alla città e da questa ancora alla specie[1].

A questa nicchia ecologica è necessario guardare da diversi punti di vista, solo così si potranno far emergere tutti gli aspetti negativi e positivi della città. L’esperienza insegna che ogni fenomeno sociale presenta due facce, nell’una si trova l’esaltazione di tutti i benefici che l’affermarsi di quel fenomeno produce e nell’altra si trovano (spesso nascosti o mistificati) gli aspetti negativi (previsti o non previsti, è irrilevante) che lo stesso fenomeno produrrà. È proprio dell’azione collettiva e politica avere consapevolezza di tale bivalenza e operare in modo da esaltare gli aspetti positivi di ogni cambiamento e contrastare quelli negativi (è solo dei regimi autoritari e populisti avere una visione monoculare).

Alla città bisogna guardare anche come il luogo tradizionale della concentrazione del capitale e del lavoro: macchina per produrre, spesso si è detta, anche se oggi la si sottolinea come macchina per consumare. Per quello che interessa in questa sede, si vorrebbe mettere in evidenza  che oltre che luogo della “produzione” essa è anche  il luogo della riproduzione.  Non solo della riproduzione, come dire, materiale della specie, ma soprattutto della sua riproduzione sociale; cioè della riproduzione (anche queste in continua trasformazione) della struttura delle relazioni sociali, dei ruoli e delle modalità con il quale si manifesta lo stesso processo di socializzazione. Tutti fenomeni che caratterizzavano in modo rilevante il “mondo” della città.

Sebbene l’ideologia urbana tende a costruire un immagine della città quale bene di tutti, luogo della libertà e dell’uguaglianza (lo stesso termini di “cittadini” tende a cancellare la collocazione sociale di ciascuno e quindi tutte le differenze), si deve sottolineare l’ambiguità di questo concetto. La città, infatti, rappresenta la proiezione nello “spazio” delle relazioni sociali di quella specifica organizzazione sociale. La città, in senso specifico, “mette ciascuno al suo posto”. Non ci si trova di fronte ad uno spazio indifferenziato e omogeneo, ma ad un’organizzazione sociale dello spazio, dove ogni porzione di spazio ha valenza diversa da ogni altro, una valenza che è di qualità, di estetica, di dotazione di servizi, e che è sintetizzata da una diversità dei valori di scambio, principalmente della casa e di ogni altro bene e servizio collocato nella singola zona. È il mercato con i differenziali di prezzo che quindi colloca ciascuno a suo posto:  ciascuno in quella parte di città che si può “permettere” data la propria capacità di spesa.

Contemporaneamente, la città, costituisce il luogo della mitigazione delle condizioni sociali meno favorite: da una parte i servizi collettivi hanno questa funzione, rendendo operativi i diritti di cittadinanza, dall’altra parte l’esistenza stessa della città, della sua organizzazione, dei suoi spazi pubblici, dei servizi, ecc. tende a ridurre la discriminazione sociale[2].

L’esistenza di una struttura economico-sociale articolata, le differenziazioni sociali, la valorizzazione dei processi di trasformazione, fanno della città un campo di tensioni ed anche di conflitti. È l’esercizio delle attività che i singoli mettono in campo per realizzare i loro obiettivi, le “pratiche sociali”, che rendono la città dinamica e innovativa e nello stesso tempo conflittuale. Si tratta di fenomeni importanti che hanno bisogno di essere governati dalle politiche pubbliche finalizzate ad obiettivi comuni (Indovina, 1998).

È proprio la convivenza, pur in presenza di conflitti, di difficoltà, di incomprensioni, di fatica, che costituisce il connotato fondamentale della città. Il governo della città dovrebbe essere determinato e determinante sia nel difendere tale convivenza sia nel facilitarla. È proprio dalla convivenza che nasce il processo di socializzazione e l’affermarsi della cittadinanza. In questo senso la città è insieme un “diritto” ma anche una “necessità”.

Nel processo di  “riproduzione” si può cogliere un aspetto privato (che è materiale, sentimentale, affettivo, religioso, ecc.) nel quale è bene che il “governo” (lo Stato) non entri, se non in punta di piedi e il meno invasivamente possibile e solo in funzione di garanzia, e un aspetto delle relazioni sociali allargate, della costruzione della cittadinanza a garanzia, come detto, della convivenza. La realizzazione di questo secondo aspetto ha avuto bisogno, tradizionalmente, dello spazio pubblico che è anche lo spazio della partecipazione alla politica e al governo.

 

2. Lo spazio pubblico    

Quando si parla “spazio pubblico” il primo pensiero che viene in mente è al mito dell’agorà ateniese: spazio pubblico per eccellenza e luogo della partecipazione al governo della città.  È banale ricordare che ad Atene da tale forma di partecipazione erano escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri. Ma per quanto qui interessa vale la pena di sottolineare la netta separazione tra la sfera domestica (che rappresentava il mondo della “necessità”) e la sfera pubblica (che al contrario era il mondo della libertà), all’eguaglianza in quest’ultima sfera corrispondeva la diseguaglianza in quella domestica[3].  Come dice la Arendt (1964), gli ateniesi  per recarsi nell’agorà dovevano valicare un abisso, costituito dalla diversa collocazione della sfera della necessità (quella domestica) e della sfera della libertà[4] (la politica). Le differenze sociali, in un certo senso scompaiono nell’uguaglianza politica. La “cittadinanza”, che mistifica l’eguaglianza nascondendo le diversità, crea il “cittadino” e, pur con tutte le sue contraddizioni, crea la democrazia, cioè la partecipazione al governo della città.

Pare di un certo interesse sottolineare, e su questo si tornerà più avanti, che nella modernità, la distinzione tra “dimensione domestica” e “dimensione politica”, viene superata dal “dominio sociale”, ma tuttavia la condizione sociale, che fa assumere rilevanza pubblica ad ogni aspetto della vita, nel processo di trasformazione tende a ridursi (vanificarsi?) con il ritorno ad una dimensione privata che estranea il singolo da tutto il resto[5].

Lo spazio pubblico, storicamente, ha svolto una notevole funzione nella riproduzione della cittadinanza, ha rappresentato il luogo della socializzazione, il luogo nel quale la specie si “fa” società, il luogo di alcuni degli aspetti fondamentali della politica, ecc. (Salzano, 2008).

Ma attenzione, ogni qualvolta si parla di qualcosa che sembra scomparso (il “com’era”) si finisce per cadere nell’inganno e nella falsificazione di una memoria addomesticata dalla nostalgia. Lo spazio pubblico pur essendo il luogo della riproduzione sociale, un luogo apparentemente egualitario, non sfugge al fattore determinante della città, essere cioè la proiezione nello spazio della struttura sociale. Presentato come omogenee ed egualitario esso, in realtà è molto differenziato in ragione proprio della divisione sociale dello spazio. È certo che la dimensione della città ha un notevole peso. In un piccolo centro dove la divisione sociale non si proietta nello spazio in modo tale da differenziarlo, lo spazio pubblico, la piazza tra la chiesa e il municipio, è effettivamente il luogo di “tutti” (anche se usi in giorni e ore diverse, permettono la diversificazione sociale), ma in una grande città, dove opera pesantemente la divisione sociale dello spazio allora gli spazi pubblici svolgono anch’essi il ruolo di rafforzare questa divisione sociale dello spazio, in termini di qualità estetica, organizzazione, funzionalità, frequentazione, ecc. Questo non toglie che lo spazio pubblico, anche in queste condizioni di differenziazione, ha costituito il luogo della riproduzione sociale (differenziata). In questo senso ha avuto un ruolo simbolico di grande rilievo, connesso alla  funzione di luogo della riproduzione sociale e della formazione della coscienza collettiva.

Non bisogna dimenticare, per altro che l’attenzione delle pubbliche amministrazioni verso lo spazio pubblico è, sostanzialmente, svanita. Detto questo non pare convincente che una rinnovata attenzione allo spazio pubblico, fisico morfologico (nuove piazze, per esempio), risolva il problema, anche perché le piazze oggi agibili in misura molto modesta svolgono il tradizionale ruolo.

Non si può non prendere atto che nel tempo lo “spazio pubblico” ha perso fondamentalmente il suo ruolo. Un disamina completa di questo fenomeno è in questa sede impossibile, tuttavia è possibile indicare alcuni dei fenomeni che stanno alla base di tale decadenza.

Il primo di questi fenomeni è sicuramente l’affermarsi della privacy, ma non tanto come un ambito di decisione individuale, ma, come è stato già rilevato, come privazione dei rapporti con gli altri.

Ancora c’è da segnalare la perdita di alcune funzioni di questi stessi spazi pubblici e il prevalere di nuovi spazi “privati di uso pubblico” (come i centri commerciali, ecc.), che tendono a sostituire alcune delle funzioni tradizionali dei primi.

Ancora la moltiplicazione di nuove occasioni in relazione alle modifiche degli stili di vita,  in modo esemplificativo la libertà di movimento legata alla motorizzazione privata, ha determinato, per esempio, nelle nuove generazioni, la scelta di quelli che sono stati chiamati “non luoghi” come spazi di socializzazione. Così il parcheggio vuoto di notte di un grande centro commerciale  diventa il luogo per fare musica, bere, amoreggiare, anche drogarsi, ecc. Uno spazio per “fare insieme” diverse attività. Un fenomeno, questo, connesso anche, bisogna dirlo, al rigetto delle città delle manifestazioni “giovanili” (ritenute rumorose, imbarazzanti, ecc.; un disturbo), da una parte, e, dall’altra parte, alla pretesa dei giovani di “poter fare” quello che più desiderano  senza nessun rispetto per le esigenze degli altri (esemplificazione, quanto mai calzante, della crisi di ogni criterio di convivenza). Una situazione questa che fa proporre a qualche assessore armato di “buone intenzioni” (che come è noto lastricano la strada per l’inferno)  la creazione di “spazi per i giovani” in luoghi appartati e tali da non potere recare “disturbo” agli altri abitanti, con la creazione di ghetti, da una parte, e con assecondare, dall’altra parte, il rigetto di ogni  convivenza insieme conflittuale e rispettosa.

Infine i provvedimenti di esclusione messi in atto da molte amministrazioni (vincoli di orari troppo rigidi, eliminazione di panchine, ecc.) che hanno finito per rendere molto poco attraenti gli spazi pubblici.

Inoltre, per finire, se gli spazi pubblici sono destinati a parcheggio essi hanno perso la loro originale funzione per acquisirne una nuova che esclude la socializzazione.

 

3. Il “privato” si contrappone al “pubblico” mettendo in  crisi il “sociale”

Pare importante riprendere il tema dell’affermarsi di un individualismo esasperato e della chiusura nel “privato”.

È molto probabile che i fenomeni di massificazione siano all’origine di due fenomeni convergenti. Da una parte appunto l’affermarsi di un individualismo massificato ed esasperato, che nega ogni individualità a favore dell’esibizione di modalità “comuni”; ma questa comunanza, appunto perché non esalta le individualità, cioè le differenze personali, finisce per rendere l’individuo “solo”[6] e mette in crisi il dominio sociale. Vale la pena di osservare, tuttavia, che la maggior parte della popolazione, pur soggetta alle pulsioni dell’individualismo esasperato, non è neanche partecipe di questa esibizione massificata e si rinchiude nella privacy, cioè nell’isolamento. Un isolamento, vale la pena di sottolineare, che è la condizione migliore per l’affermarsi di un “pensiero unico”, privo cioè del contributo di riflessione personale e individuale e che evita la formazione di un’opinione che può nascere solo  nel confronto con altre opinioni anche divergenti (tipico di una pratica sociale e politica coinvolgente).

Mutuando una casistica dal fenomeno dell’immigrazione, è possibile affermare che il processo d’isolamento nel privato ha origine da due atteggiamenti (stati d’animo) che hanno motivazioni diverse. Da una parte, è possibile cogliere l’espressione di un fenomeno di “attrazione”: il privato (la famiglia o anche un gruppo ristretto) appare di gran lunga una situazione ottima. L’intimità, rapporti costruiti sulla base dell’affettività, l’autonomia  di decisione (magari apparente), il ruolo svolto nel piccolo gruppo, ecc. sembrano tutti aspetti positivi e desiderabili. Tutte situazioni che non hanno confronti con il sociale allargato (spesso confuso, conflittuale, antagonista). Dall’altra parte, il fenomeno sembra caratterizzato da un sentimento di “espulsione”, ci si sente espulsi dal “dominio sociale”, dalla società dove la fa da padrone l’insicurezza (“paura”), la povertà di occasione, un popolazione estranea, la diversità, ecc.;  tutti fenomeni che se non razionalizzati appaiono repulsivi[7].

È evidente che ci si trova in presenza di un circolo vizioso di causa effetto uno spazio pubblico de-funzionalizzato, de-socializzato, de-politicizzato non è attraente e spinge al “privato”, ma la spinta al privato accentua i fenomeni negativi che caratterizzano oggi lo spazio pubblico.

È possibile che le forme assunte oggi dalla politica siano, anche qui, causa ed effetto dei processi che investono lo spazio pubblico. Il protagonismo politico delle persone (un tempo si parlava di “protagonismo di massa”)  è evaporato (e non bastano i diversi e vari comitati, specifici su singole questioni a riportarlo in auge); le manifestazioni della “politica” appaiono come l’immagine dell’individualismo esasperato. Non è un caso che le “primarie” hanno  successo, mentre diminuisce la partecipazione al voto (dove effettivamente si sceglie chi deve governare e al quale si affida una delega).

A questo punto la domanda pertinente è: si può vivere senza “spazio pubblico”? le risposte sono diverse (a parte quelle che possono derivare da chi ha il “potere” per il quale lo stato attuale è sempre il più conveniente), molte sono centrate sulla sostituzione dello spazio pubblico fisico con uno spazio pubblico ……..e centrate sull’utilizzo della tecnologia informatica. Così si è parlato oltre che di e-commercio e di –lavoro, anche di e-socializzazione,  fino all’ e-democrazia.

Ma forse la risposta alla domanda dovrebbe essere  no! se fosse desiderabile una società fatta di cittadinanze riconosciute e diverse; cittadinanze che si “riconoscono” reciprocamente, che hanno motivi di convergenza e di conflitto, che non sono “impastati” tutti con gli stessi ingredienti culturali, politici e di esperienza e che possono trovare solo  nello spazio pubblico, inteso non solo come luogo, ma come spazio di relazione, l’occasione per costruire società e coscienza individuale sulla base di un confronto collettivo esaltando la convivenza.

 

4. La costruzione dello “spazio comune”

Ma se la crisi, per così dire, dello spazio pubblico avesse i determinanti a cui si è prima accennato, bisognerebbe riflettere sul se e come sia possibile  ricostruire le condizioni per riaffermare vitalità e funzionalità allo spazio pubblico.

Come prima cosa va affermato che debba essere  ripristinata l’attenzione allo spazio pubblico nel governo della città; non perché questo automaticamente ne rigenererà la funzione tradizionale, ma perché ne costituisce la condizione di base indispensabile. Questa attenzione riguarderà da una parte la realizzazione di spazi pubblici in tutte le zone della città dove essi mancano, ma anche la cura della loro estetica e della loro capacità di “accogliere” (con dotazioni di attrezzature, ove necessario), della possibilità di essere anche autogestiti, della  difesa  dall’invasione di funzioni improprie (tipica la sosta automobilistica), ecc.

Il problema, tuttavia, oggi si pone in modo diverso se fosse vera la tendenza alla “privatizzazione”, e dall’altra parte se fossero verificate le condizioni di base che hanno portato al depotenziamento dello spazio pubblico (stili di vita, occasioni diverse, abbandono, ecc.).

Si ha l’impressione, e ci sono degli indizi in proposito, che sia necessaria una “struttura intermedia” che è possibile chiamare spazio comune. Uno spazio dall’accesso aperto, ma la cui fruizione sia l’esito di una scelta individuale. Uno spazio che permetta una socializzazione “scelta” e che, soprattutto, solleciti la volontaria partecipazione ad interagire con gli altri.

Se fosse vero che la maggior parte della popolazione tende a rinchiudersi nel privato, ci vuole uno spazio capace di sollecitare la fuoriuscita del singolo dall’ambito angusto, ancorché felice, della famiglia, ma che a quella non si contrapponga.

Non si tratta di uno spazio pubblico, tradizionalmente inteso,   ma di uno spazio comune, cioè di uno spazio funzionalizzato e organizzato, ma che sia nello stesso tempo non “occasionale”, né “obbligatorio”. Uno spazio che per la sua organizzazione e per il suo funzionamento richieda  l’espressione piena della individualità (contro l’individualismo) e la consapevole partecipazione a beneficio di un gruppo o di un’attività e dove sia evidente la  “produttività”, nei suoi molteplici aspetti,  del “fare insieme”. Insomma una struttura in grado di sollecitare la partecipazione, da una parte, e rendere evidente, dall’altra parte, come questa costituisca un’opportunità sia individuale che collettiva.

Ma cosa è uno spazio comune? Si tratta di un edificio organizzato per funzionare in relazione alle esigenze di chi lo frequenta, dove sia possibile svolgere attività di gruppo, ma anche dove sia possibile organizzare discussioni generali, fare “collettivo”, costruire un pensiero comune, consapevole e convinto perché risultato di una discussione a partire anche da posizioni diverse. Non sono definibili le attività che si potranno svolgere dentro lo spazio comune, queste infatti nasceranno dalle esigenze di chi vi partecipa. Ma non si deve immaginare uno spazio privo di un progetto, purché il progetto sia quello di promuovere la partecipazione consapevole e libera; per realizzare questo obiettivo sono necessarie professionalità specifiche che a questo “lavoro” si dedichino. Non si può neanche predefinire la dimensione di questo spazio, questo, infatti, dipenderà da avvenimenti incontrollabili, dalla disponibilità, dalla capacità “imprenditiva” di chi è chiamato a costruirlo, ecc.

È possibile affermare che  l’esperienza della Cascina Roccafranca di Torino e altre iniziative a questa similare (la “diversità”, pur in una omogeneità di intenti,  sembra la caratteristica di queste iniziative) costituiscono un possibile modello di riferimento e rivestono una grande importanza. Se mai c’è da lamentare che esse non siano numericamente adeguate alle esigenze.

Non si tratta di esperienze “facili”, né prive di problemi e spesso rese anguste per la miopia politica delle amministrazioni locali. Si tratta di esperienze positive, forse necessarie nell’attuale congiuntura sociale, culturale e politica, proprio per i connotati che esse assumono.

Bisogna dire che queste esperienze, anche molte diverse tra di loro, si possono classificare in due famiglie: la prima ha come riferimento dei “gruppi” organizzati, spesso gruppi di “movimento” o comunque politicamente connotati; per la seconda famiglia di queste iniziative il riferimento non è tanto ai “gruppi” quanto agli individui, ai singoli (magari rinchiusi nel loro isolamento). Le dinamiche, le funzioni, i problemi di queste due famiglie di iniziative sono molto differenti;  si può dire che da un punto di vista della società, o se si preferisse politico, il secondo gruppo di iniziative sembra più interessante, se fosse vero che per ricostruire una coscienza collettiva sarebbe necessario rompere ogni forma di isolamento e di rapporti epidermici. A questo gruppo si riferiscono le poche  osservazioni che seguono, questo non vuol dire non ritenere importanti anche le altre, ma, in un certo senso, quelle risultano più “facili” (il che non vuol dire senza problemi di relazioni interne, senza difficoltà della loro collocazione nella città, ecc.), ma che forse incidono meno sulla rottura dell’isolamento di cui a più riprese si è detto.

Il successo di queste iniziative, spesso rilevante, come nel caso della Cascina Roccadranca, indica che si tratta di iniziative che, in un certo senso, soddisfano dei bisogni: quello, consapevole o meno, di abbandonare l’isolamento e l’altro, anch’esso essenziale, di relazioni, della costruzione di un “mondo” individuale autonomo, anche se parzialmente, dalle relazioni di tipo familiare. Un bisogno di spazi mentali più ampi, di una fuoriuscita da una routine soffocante, di relazioni importanti ma fondati su scelte tradizionali, ecc. In sostanza e sinteticamente un bisogno di socializzazione e di partecipazione.

Proprio per rompere l’isolamento e il dominio di un pensiero unico, la partecipazione appare fondamentale, non ci si riferisce soltanto alla partecipazione politica, ma alla partecipazione nella e per la decisione, qualsiasi sia l’ambito di tale decisione. È in quest’ambito, infatti, che si costruisce un “pensiero comune” a partire da pensieri (fossero anche stereotipi) individuali. Il confronto, la necessità di “ascoltare” e riflettere, il misurare opzioni diverse, per costruire alla fine una decisione e un pensiero comune (magari partendo da posizioni molto distanti) costituisce l’esito positivo, al massimo grado, della partecipazione. La costruzione di individui consapevoli, non “tifosi”, ma riflessivi.

Lo spazio comune, con le sue attività, con le sue scadenze, con la costruzione di impegni, ecc. corrisponde anche alla necessità di una “collocazione sociale”. Se la costruzione sociale predominante tende a svalutare la collocazione sociale (prima determinata in maniera assoluta dalla collocazione nella produzione) a favore del prestigio del consumo, resta insoddisfatto un bisogno di ruolo sociale costruito su fondamenta solide in quanto riconosciuti anche da “altri”. Ed è proprio del fare e nel fare dentro questi spazi comuni che si ha una ricollocazione sociale, il riconoscimento di un ruolo a partire dalle proprie capacità, dal proprio impegno, dalla propria disponibilità. Una collocazione sociale che trova la sua espressione in un lavoro comune per la qualità della vita propria e degli altri.

A differenza dello “spazio pubblico”  che esiste in quanto materializzato, lo spazio collettivo esiste solo in relazione ad una espressa capacità di organizzazione, ad una manifesta professionalità nella gestione, al reale coinvolgimento dei sui partecipanti e, soprattutto, per la sua “attrattività” verso  quanti hanno voglia e sentono il bisogno di misurarsi con “altri” . Non si tratta, infatti, solo di offrire uno spazio, ma di mettere a disposizione un’opportunità, di offrire delle funzioni all’interno dei quali coinvolgere i partecipanti che delle attività stesse devono essere i protagonisti.

Il successo di queste iniziative può essere assunto come la prima manifestazione di un nuovo diritto di cittadinanza, quello appunto del diritto allo spazio comune.  Ma se fosse così, se fosse corretta una tale interpretazione, allora sarebbe evidente che l’organizzazione pubblica, che deve  strutturare le occasioni e i servizi affinché  i diritti di cittadinanza siano resi operativi e reali, dovrebbe occuparsi anche della realizzazione degli spazi comuni.

Il ruolo che deve essere svolto dal settore pubblico risulta molto delicato. Intanto con molta difficoltà  ha la capacità di leggere le domande emergenti  che, per altro,  sono sempre più complesse e richiedono un alto tasso di socializzazione. Trattandosi di un attività nuova, non già routinizzata, per l’attivazione avrebbe    bisogno di professionalità poco presenti al suo interno. Infine, ogni nuovo diritto presenta un tasso politico che tendono a mettere in discussione equilibri politici, organizzativi e burocratici consolidati. Tuttavia la natura di queste iniziative dovrebbero e potrebbero aiutare le Amministrazioni pubbliche locali ad assumere decisioni positive e creative.

Lo spazio comune deve essere assunto come luogo “intermedio”;  è quindi necessario immaginare una struttura (appunto intermedia) che non sia né privata né  pubblica, in grado di promuovere una continua esplorazione dei nuovi bisogni che potrebbero essere soddisfatti nell’ambito dello spazio comune. È proprio all’interno delle attività che si svolgeranno dentro lo spazio comune che emergeranno i nuovi bisogni e saranno individuati gli strumenti adatti per soddisfarli.

Una struttura intermedia che deve possedere notevoli capacità di autorganizzazione, nonché la possibilità di un parziale auto sostentamento. Un “corpo” intermedio facilitato, sostenuto e aiutato  dalla sfera pubblica (ma anche: osservato, monitorato, giudicato). Non si è di fronte a meccanismi consolidati e dalla lunga esperienza, ma ci si trova a misurarsi con esperimenti di grande interesse che necessitano di notevoli livelli di “libertà”, ma che devono essere sottoposti ad un continua verifica riflessiva.

Per evitare fraintendimenti, va chiarito che non si ritiene che la sfera pubblica debba cedere a tali corpi intermedi le funzioni che sono sue proprie (in relazione ai processi di consolidamento e di operatività dei diritti di cittadinanza), ma piuttosto rilevare che di fronte ad una nuova evenienza, che è possibile individuare nella rottura della privatizzazione e l’isolamento,  bisogna mettere in campo, con apertura e disponibilità, nuove esperienze.  È sbagliato e inconcludente, almeno cosi pare, il tentativo di rompere privatizzazione e isolamento con la produzione di “eventi” (manifestazioni, festival, ecc.) che, di fatto, sembrano rafforzare l’espressione di un individualismo di massa. Sembrano necessari strumenti ed esperienze nuove tanto più importanti quanto più cresce la consapevolezza che la privazione e l’isolamento costituiscono dei gravi pericoli per la convivenza.

Fermo restando che nel nostro apparato politico-istituzionale la strumentazione necessaria alla concreta realizzazione dei diritti di cittadinanza (fino a quando riusciremo a conservare questo schema) è una funzione eminentemente pubblica, non è un caso che tutte le privatizzazioni di questi apparati, con la giustificazione di una maggiore efficienza privata, trovino un’opposizione molto forte, si devono attivare strumenti nuovi adeguati a nuove esigenze. Ora nello schema di “democrazia delegata” a proposito dello spazio comune si impone che la struttura politica delegata a sua volta deleghi, in questo caso, ad un  corpo intermedio, la funzione di realizzare e gestire questo spazio.

Bisognerebbe evitare, per conservare le finalità di tale spazio, di esaltare esclusivamente la funzione di “servizio” dello spazio comune; quella prioritaria deve essere l’esperienza di socializzazione e di partecipazione. Aiuta la realizzazione di questo obiettivo che al fine di dare corpo al suo funzionamento sia indispensabile la presenza di un’attività professionale ma anche e soprattutto la partecipazione dei cittadini che si assumano anche compiti di gestione e di organizzazione.

Un secondo pericolo da scongiurare è il rinchiudersi in una sorta di ghetto d’oro, dove tutto è bello in contrasto ad un esterno negativo (la riproposizione dello schema familiare). Lo spazio collettivo deve aprirsi alla città, ai problemi complessivi, deve farsi “investire” dalla realtà esterna, deve diventare un luogo di riflessione sulle questioni generali della città e del paese. Evitare, cioè, che il virus della “privatizzazione” investa anche queste esperienze coinvolgendoli in processi di “privazione”.

Dovrebbe essere proprio dello spazio comune costruire, attraverso le diverse esperienze al suo interno, un’espressione di cittadinanza, e partendo da questa nuova consapevolezza affrontare le questioni generali del quartiere, della città e del paese.  In un travaso di consapevolezza e nella convinzione che sia necessario e possibile migliorare la qualità della vita complessiva di tutti. Si tratta di una funzione “politica”, nel significato alto di questo termine, dell’attenzione, cioè, al governo nell’interesse generale.

Un punto focale di queste esperienze, per il significato di costruzione di nuova cultura e nuova coscienza che esse hanno, è la questione dei diritti di cittadinanza. Che questi non siano una conquista per sempre ha un’evidenza quotidiana, per questo si tende a perdere la consapevolezza che essi siano fondamentali sia per affermare un relativo principio di eguaglianza, sia per garantire la convivenza, sia, anche, per mitigare gli effetti discriminanti del processo economico. La ricostruzione della consapevolezza dell’importanza dei diritti di cittadinanza e degli strumenti per renderli operativi è una priorità della fase politica di oggi. Non solo ma i diritti di cittadinanza nel loro dinamismo positivo costituiscono il faticoso aggiustamento collettivo della situazione dei singoli, rispetto alle trasformazioni imposte sia dalle tecnologie sia dal processo produttivo. Non solo i tradizionali diritti di cittadinanza devono essere difesi ma se ne impongono altri di nuovi, dal diritto all’informazione, a quello della conservazione dell’ambiente, dal diritto all’acqua a quello della sicurezza  (correttamente intesa), a quello, appunto, dello spazio comune.

 

5. Le politiche

Bisogna osservare che le esperienze che possono essere raccolte sotto il titolo spazio comune hanno origini diverse, molto spesso esse hanno carattere “accidentale”, tuttavia la loro esistenza, proprio in assenza di un disegno unico, testimonia che esse corrispondono, in qualche modo, ad una necessità.  Per qualche breve considerazione sulle “politiche” necessarie affinché si passi dalla accidentalità ad un sistema continuativo, pare necessario ripetere che lo spazio comune corrisponde ad un nuovo diritto di cittadinanza, proprio perché nel nuovo contesto sociale lo “spazio pubblico” non svolge più quella funzione di socializzazione che un tempo aveva. È proprio perché riconosciuto come un nuovo diritto che è possibile pensare ad una politica che ne garantisca esistenza e sviluppo. Si ha consapevolezza che ci si trova di fronte ad  un diritto “nascente” e che, quindi, la sua natura appare ancora incerta e la relativa generalizzazione prematura, ma è certo che, soprattutto nelle grandi città, politiche specifiche debbano essere richieste ed attivate.

Richiedere una politica non significa proporre una omogeneizzazione di tutte le esperienze, contraria proprio alla fase “nascente”, ma piuttosto sollecitare  attenzione alle diverse esperienze.

Fondamentale appare il riconoscimento di corpi intermedi a cui delegare la realizzazione di queste esperienze, che per loro natura non possono essere burocratizzate, garantendo le risorse necessarie per poter permettere di sviluppare la creatività necessaria  e lo sperimentalismo indispensabile. Delegare la realizzazione di queste esperienze non significa “sfruttare” il volontariato, ma piuttosto integrare una presenza professionale con una volontaria. A queste esperienze devono essere assegnate, come già detto, le risorse necessarie, ma i singoli esperimenti devono essere sollecitate ad attività che possano contribuire al relativo mantenimento.

Quello che appare fondamentale e massimo in proposito deve essere l’impegno prioritario delle Amministrazioni locali, è la disponibilità di spazi adeguati. Non esiste lo spazio comune senza uno spazio che lo identifica. Se lo spazio comune deve essere un luogo messo in comune (non una casa comune) dove svolgere le diverse attività previste e che potranno individuarsi nella dinamica collettiva, allora, è banale ripeterlo,  la disponibilità di un luogo ne costituisce la premessa fondativa[8].

Detto in modo molto sintetico, le decisioni che le amministrazioni locali devono prendere per garantire la nascita e lo sviluppo degli spazi comuni sono poche ma significative:

–                     riconoscerne l’importanza;

–                     assegnare locali adeguati e funzionali;

–                     trasferire delle risorse in grado di garantirne l’attivazione.

 

 

Opere citate

–                                             Hannah Arendt, 1964, Vita activa, la condizione umana, Bompiani, Milano

–         Francesco Indovina, 2009, Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano, Franco Angeli, Milano

–         A. Font, F. Indovina, N. Portas, 2004 (a cura di),  L’explosio de la ciutat, COAC publicacion, Barcellona

–         Francesco Indovina, 1998, «New Conditions and Requirements for Urban Government», in C.S. Bertuglia, G. Bianchi, A. Mela (eds.), The City and its Sciences, Physica-Verlag, Heidelberg-New York

–         Edoardo Salzano, 2008, La città come bene comune, Relazione al convegno “La città come bene comune, una vertenza europea”, Venezia, 24 novembre, sta nel sito  Eddyburg.it

 

 

 

 

 


[1]              Da questo punto di vista non pare consistente l’opinione di quanti riconoscono la città a partire dalla sua struttura fisico-morfologica, la città da questo punto di vista si caratterizzerebbe per intensità, densità e assenza di soluzioni di continuità. In sostanza è città soltanto quella compatta, magari dentro le mura, cioè quella che per una lunga fase storica è stata la città. Ma la città è fatta degli uomini e delle donne che l’abitano, che entrano in relazione reciproca, che costruiscono relazioni e modi di vita. Oggi processi tecnologici, economici, sociali e culturali hanno dato luogo ad una dimensione territoriale della città, la città è uscita fuori dalle mura, è “esplosa” nel territorio dando al fenomeno urbano  una nuova forma. (Indovina, 2009; Font, Indovina, Portas, 2004 ).

[2]              In determinati periodi storici nella città si sommano le discriminazione derivanti dal meccanismo ecomico-sociale a quelli derivanti da ideologie politiche o a fenomeni di rigetto di natura sub culturale, come quando a Torino negli anni 50-60 erano apparsi i cartelli “non si affitta a meridionali” ed oggi a Milano “non si affitta a stranieri”. Si tratta di fenomeni che incidono profondamente nella convivenza e quindi nella natura stessa della città.

[3]              “La polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’eguaglianza di tutti i cittadini, mentre la vita familiare era il centro della rigida disuguaglianza. Essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita  o al comando di un altro, sia non essere in una situazione di comando. Significava non governare né essere governati. Nella sfera domestica, dunque, non esisteva libertà; il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la casa ed accedere all’ambito politico, dove tutti erano uguali” (Arendt, 1964)

[4]              Vale la pena di riflettere che “nella sensibilità antica l’aspetto di deprivazione della privacy, indicato nella parola stessa, era considerato predominante; … Un uomo che vivesse solo di una vita privata e che, come lo schiavo, non potesse accedere alla sfera pubblica, o che come il barbaro avesse scelto di non istituire tale dominio, non era pienamente umano. Noi non pensiamo più alla privazione quando parliamo della vita privata… Tuttavia, appare anche più importante che la moderna esperienza della privacy è almeno tanto opposta al dominio sociale  (sconosciuto agli antichi…) quanto alla sfera politica” (Arendt, 1964).

Bisogna osservare che nella fase più recente la vita privata (domestica), in questa sua opposizione al dominio sociale e alla sfera politica  tende a qualificarsi nuovamente come caratterizzata da “privazione”, cioè da una chiusura nei riguardi degli altri.

[5]              “La privazione implicita nella privacy consiste nell’assenza degli altri; in questo caso, ai loro occhi, l’uomo privato non appare, e quindi è come se non esistesse. Qualunque cosa faccia rimane senza significato e senza conseguenza per le altre persone, e ciò che a lui importa è privo di interesse per loro. Nelle condizioni dell’epoca moderna, questa privazione di rapporti “oggettivi” con gli altri e di una realtà garantita attraverso di essi e diventato il fenomeno di massa della solitudine, dove ha assunto la sua forma estrema e disumana” (Arendt, 1964)

[6]              La questione, ovviamente, è molto complessa e ha a che fare con tutto quello che viene etichettato con il termine di  “post-modernità”; una teorizzazione che non pare sempre convincente  ma che, comunque, descrive modi di essere reali.

[7]              Ovviamente si sta operando una semplificazione che può essere ancora di più estremizzata contrapponendo il mondo dei “sentimenti” (il privato) al mondo della “ragione” (il pubblico). Si spera che nonostante la semplificazione il concetto sia chiaro.

[8]              Va detto che le Amministrazioni locali sono ricche di spazi molto spesso non utilizzati e abbandonato al degrado. Un loro recupero e una loro assegnazione a queste attività costituirebbe una cosa positiva su diversi piani.

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